Se l’agibilità rischia di diventare commerciabilità

da | 5 Feb 2017 | immobiliare

Il Medio Evo – superata una prima fase di svuotamento dei grandi centri urbani – vide un contrarsi delle condizioni igieniche delle nuove grandi città emergenti. La stessa edilizia – che aveva conosciuto grande attenzione sotto l’occhio romano – diviene uno strumento riservato ad esigenze belliche e religiose oppure al servizio di chi – nobile o ricco mercante – poteva permettersi la progettazione di palazzi sontuosi. Per i poveri la casa – intesa in senso moderno – si riduce ad un tetto malsano sotto cui riposarsi. Bisogna così attendere l’era moderna per riavere una generale attenzione alle condizione di abitabilità degli immobili; come il risantamento di Napoli di fine ‘800 testimonia, l’igiene delle abitazioni private – di qualunque classe sociale – torna ad essere – complice un’epidemia di colera – una pubblica questione.

Ed è muovendo da questa introduzione che si può inquadrare la recente sentenza della Corte di Cassazione (la n. 2294 pubblicata in data 30 gennaio 2017) in tema di “agibilità”. In breve, i togati del Palazzaccio – nel solco di altre pronunce – riconducono nell’alveo dell’aliud pro alio la consegna di un immobile privo di abitabilità, con la conseguente possibilità di chiedere la risoluzione del contratto (e il risarcimento del danno, e l’eccezione di inadempimento). Sul punto la Suprema Corte pare andare anche oltre, asserendo che “il venditore […] ha l’obbligo di consegnare all’acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l’immobile stesso è incommerciabile“: affermazione decisamente tranciante su cui è bene ritornare.

Prima, tuttavia, è bene ripercorrere brevemente lo strumento dell’abitabilità. In primis, si ricorda come sia da tempo stata superata – con il d.P.R. 380/2001, artt. 24, 25, 26 – la dicotomia tra abitabilità ed agibilità. Se – in precedenza – la prima era riferita agli edifici ad uso residenziale (ed in generale si ricollegava alla presenza di determinati requisiti) e la seconda a quelli a diversa destinazione (con particolare attenzione agli standard di stabilità e sicurezza), con il Testo Unico dell’Edilizia si parla unicamente di agibilità. Ma un ulteriore passo avanti è avvenuto – come già illustrato – a fine 2016, con la nascita della segnalazione certificata di agibilità, che sostuisce il precedente meccanismo del silenzio-assenso da parte degli Enti Locali e pone l’intero iter nella disponibilità (e responsabilità..) del titolare dei lavori eseguiti.

In questo contesto “tecnico”, la Cassazione è più volte entrata sul tema ribadendo l’importanza del certificato di abitabilità/agibilità, seppur in un “crescendo” di responsabilità. Se nel 2013, infatti – con la pronuncia n. 23157 – si chiarisce come la presenza della certificazione “pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un’obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477 c.c.”, già nel 2016 (sentenza n. 24386) si parla di ben più gravoso (in termini di conseguenze) aliud pro alio, legittimando la possibilità di rifiutarsi – in presenza di un preliminare sottoscritto – di giungere al definitivo. Ma nell’ultima decisione – questa, recentissima, del 2017 – la Suprema Corte pare addirittura spingersi oltre, affermando, come sopra già visto, l’incommerciabilità del bene.

La posizione, mi permetto, pare ardita e merita alcune considerazioni. In primo luogo, il Testo Unico dell’Edilizia già censisce i casi in cui non si può procedere alla vendita di beni immobili, riconducendoli – riassumo – ad ipotesi di assenza dei titoli edilizi, fra cui non ricomprende il certificato di agibilità. Non solo: lo stesso compendio normativo introduce a decorrere dal 2001 l’obbligo di dotazione dell’agibilità solo per nuovi edifici ovvero oggetto di particolari interventi, ammentendo a contrario la sua non necessità per il passato. La mancata presentazione nei termini risulta altresì avere – come unica conseguenza – una sanzione amministrativa, senza alcun impatto sulla circolazione del bene.  E’ in breve la legge stessa a definire la commerciabilità stessa di un immobile e l’agibilità non pare emergere come elemento determinante. La stessa Corte, nel qualificare la vicenda come vendita di aliud pro alio, rimette all’acquirente la facoltà di agire (e di come agire): risoluzione, risarcimento, eccezione. In questo scenario pare configurarsi un’incommerciabilità “relativa”: l’immobile non può essere venduto a meno che chi compra non sia d’accordo. La ricostruzione – che ha condivisibili profili di ragionevolezza – rischia tuttavia criticità sistematiche: se infatti l’agibilità è posta a tutela di pubblici interessi (stabilità, igiene, et coetera..) allora non può essere rimessa alla disponibilità contrattuale dei privati; se invece è finalizzata a garantire la consapevolezza dell’acquisto, la classificazione in termini di “incommerciabilità” rischia di essere estrema.

In conclusione, ritengo condivisibile ed armonica con gli ultimi sviluppi normativi la pronuncia in oggetto, se la si vuole contestualizzare in un percorso di “formazione” delle parti contrattuali, che devono essere rese edotte di ogni elemento idoneo a valutare il perfezionamento (e le condizioni) dell’affare. Il tutto, in particolare, in un momento in cui la “semplificazione” (non sorretta da idonei strumenti compensativi, quali le tariffe professionali) riduce controlli e sicurezza: la SCIA può essere presentata da chiunque, magari non sarà mai verificata, e difettano totalmente concrete garanzie circa il contenuto. Come sempre – tuttavia – non ci si può rimettere alla magistratura per un’opera di interpretazione ed armonizzazione delle norme, a mezzo sentenze che, nel corso del tempo, possono anche mutare indirizzo; anche in questo caso sarebbe opportuno un intervento del legislatore a definire gli obblighi informativi in tema di agibilità. Purtroppo il nostro Parlamando pare bloccato nelle discussioni sulla legge elettorale (fattore decisivo per la vita democratica) e il decisamente meno utile disegno in materia di concorrenza (che tocca solo i professionisti – già stremati, con le conseguenze più volte trattate in tema di sicurezza e garanzie per il cittadino – e non sfiora assicurazioni e conglomerati bancari); nel mentre i contenziosi in materia rischiano di aumentare con i conseguenti costi per l’intero sistema giustizia. Nell’incuria del legislatore all’intervento successivo del giudice si affianca quello preventivo del Notaio che – alla luce delle indicazioni giurisprudenziali – guida e consiglia il cittadino nella disciplina dei profili relativi all’agibilità fin dal preliminare, momento spesso sottovalutato ma invece determinante per la pacifica conclusione della compravendita. In questo senso una defiscalizzazione del preliminare per atto pubblico o scrittura privata autenticata potrebbe rappresentare uno strumento decisivo nell’ottica della riduzione del contenzioso: ma qui si rischia di chiedere fin troppo buon senso.

Fabio Cosenza

Notaio

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